In questi giorni i sostenitori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea hanno esultato perché l’applicazione da parte di Trump dei dazi al 10%, il minimo previsto, è stato interpretato come un dividendo della Brexit, a fronte della tariffa del 20% prevista per l’UE nel suo insieme (nel frattempo sospesa e anch’essa ridotta al 10% per 90 giorni). Ma è davvero una vittoria?
Intanto è lo stesso governo Starmer a richiamare l’attenzione – piuttosto che sullo status di indipendenza del Regno Unito rispetto all’UE – sulla strategia britannica di evitare lo scontro diretto con Trump, anzi di cercare di blandirlo in tutti i modi, addirittura con l’invito firmato da re Carlo per una visita di Stato con tutti i crismi reali. Inoltre, la UK subisce comunque i dazi ben più alti applicati ad automobili e acciaio e già entrati in vigore, tanto che Jaguar Land Rover ha disposto lo stop per un mese alle esportazioni verso gli Stati Uniti, in attesa di decidere quale strategia adottare per affrontare le tariffe al 25% che colpiscono il settore.
E per il resto? Quali sono stati i costi e i vantaggi della Brexit?
Il primo costo è costituito dalla liquidazione finanziaria con l’Unione Europea di 30,2 miliardi di sterline (circa 34,73 miliardi di euro), con un residuo di 6,4 miliardi (circa 7,36 miliardi di euro) ancora da saldare, secondo le stime del Ministero delle Finanze britannico.
Il secondo è l’aumento dell’inflazione, tanto che il Centre for Economic Performance della London School of Economics sostiene che la Brexit sia costata sinora sei miliardi in più ai britannici in termini di spesa alimentare, con ogni famiglia che ha pagato almeno altre 210 sterline in più, per comprare gli stessi alimenti, anche a causa dei costi doganali con l’UE.
Secondo Bloomberg Economics e Goldman Sachs, la Brexit ha determinato una perdita annuale di 100 miliardi di sterline (circa 115 miliardi di euro) di Pil, cioè cinque punti di Pil in meno, dato confermato anche dalle stime dell’organismo semi-governativo Office for Budget Responsibility, una sorte di Conte dei Conti britannica.
Sempre Bloomberg afferma che, se si cumulano i dati dal 2016, il Pil medio dell’UE è cresciuto del 24% contro il 6% del Regno Unito, mentre nei dieci anni precedenti alla Brexit era l’esatto contrario: il resto della UE era indietro di 12 punti rispetto al PIL anglosassone.
Dal punto di vista delle esportazioni c’è stato un calo del 15% nel commercio a lungo termine, come rilevato dall’Ufficio per la Responsabilità di bilancio, mentre il deficit della Gran Bretagna verso l’UE si è ampliato dal 2020 in poi, raggiungendo un record, corretto per l’inflazione, di 32,9 miliardi di sterline nel quarto trimestre dello scorso anno, secondo dati Reuters.
Oltre 16.000 aziende britanniche con clienti europei hanno smesso di esportare, mentre nel mercato del lavoro molti settori fanno fatica a trovare manodopera a causa delle restrizioni: più della metà dei produttori caseari, ad esempio, afferma di essere in difficoltà nel reclutamento di lavoratori. Il problema è soprattutto il reperimento di personale qualificato con le competenze corrette per le moderne tecnologie soprattutto nel campo dell’automazione.
Anche se da un lato 1,2 milioni di cittadini dell’UE hanno lasciato il Regno Unito sulla scia della Brexit – spiega l’Independent –, la migrazione netta è aumentata di 2,3 milioni di individui. Mentre, allo stesso tempo, gli studenti UE nelle università del Regno Unito sono diminuiti di un terzo.
Londra è l’epicentro della crisi: secondo un rapporto di Cambridge Econometrics, in città sono stati persi 290 mila posti di lavoro, l’economia si è ridotta di 30 miliardi, il londinese medio guadagna 3.400 sterline l’anno in meno.
Ma non solo: anche il fronte finanziario non è stato risparmiato. Basti guardare il mercato azionario di Londra oggi, che rappresenta circa il 4% del valore totale delle azioni scambiate in tutto il mondo, mentre 10 anni fa era il 10%.
Nonostante la Brexit, la Borsa di Londra, come gli altri listini europei, non si è salvata dall’abbandono di alcuni attori globali a tutto vantaggio delle borse statunitensi, sempre più dominanti, ma anche di quelle asiatiche, principalmente Hong Kong e Singapore. Anzi ha attraversato nel 2024 il suo peggior anno in termini di abbandoni dal 2008, con 88 aziende che hanno cancellato o trasferito la loro quotazione, mentre solo 18 nuove società si sono unite al mercato principale.
Per quanto riguarda i vantaggi, il Paese finalmente libero dalle catene imposte dall’Unione Europea, ha potuto stringere nuove alleanze di ogni tipo – politico, economico, difensivo – puntando anche in maniera decisa su partner lontani dall’Europa, soprattutto nella regione dell’Indo-Pacifico. E’ il caso degli accordi con Australia, Nuova Zelanda e dell’adesione al Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), grande area di libero scambio della regione del Pacifico nata per volere degli Stati Uniti che si tirarono però indietro all’inizio della prima Presidenza Trump.
E, come accennato in apertura, la Gran Bretagna gode in parte di tariffe doganali più favorevoli con gli USA, anche se non si è potuta salvare dalla furia protezionistica del Presidente statunitense.
Sebbene la situazione in futuro possa migliorare e determinare un vantaggio sul lungo termine per il Paese, al momento resta solo il risultato del nuovo sondaggio della rivista Independent, secondo cui il 62% dei cittadini britannici afferma che l’uscita dall’Unione è stata “un fallimento”, contro l’11% che la definisce “un successo”, mentre solo il 20% degli intervistati non si sbilancia, lasciando in sospeso il proprio giudizio.
Crediti: Photo Oskar Młodziński – Pixabay
Federica Coscia, Paolo Gambaro