Il Consulente finanziario prospetta il possibile scenario di un nuovo paradiso fiscale tutto inglese.

“Il Regno Unito diventerà un paradiso fiscale!”: anche senza questa minaccia lanciata da Philip Hammond, ex Cancelliere dello Scacchiere sotto il Primo Ministro Theresa May, nei confronti dell’Unione Europea – in caso di accordi che neghino il libero accesso al mercato unico – è noto a molti come l’Inghilterra sia stata al centro di forti polemiche riguardo ai suoi legami con paesi “off-shore”. Molto spesso residenze legali e sedi di società vengono spostate a Londra e da qui in altri stati nella sfera d’influenza britannica, per sfruttare, nella migliore delle ipotesi, una legislazione particolarmente favorevole sotto il profilo fiscale o, in certi casi, il vantaggio dato dal segreto bancario non ancora “minacciato” dalla normativa antiriciclaggio europea, tanto per usare un eufemismo.

Del resto è quasi una certezza che l’Inghilterra “post Brexit” incrementerà questa sua “vocazione” anche nei rapporti con i cosiddetti paradisi fiscali. Grazie, infatti, a tutte le “isole” del Commonwealth, Bermuda, Bahamas, Isole Vergini Britanniche, Cipro, Gibilterra, Singapore e altre, Londra ha infinite soluzioni e “partners” con i quali collaborare per pianificare e ottimizzare le esigenze finanziarie di clienti interessati a usufruire di una legislazione particolarmente favorevole dal punto di vista fiscale e non solo.

Anche se si tratta di Stati diversi, uno dei vantaggi è che nel Commonwealth la lingua degli affari è l’inglese e quindi la documentazione non deve essere tradotta di volta in volta. Inoltre vi sono alcuni tratti comuni nell’ordinamento giuridico e nella legislazione, frutto dell’eredità del dominio coloniale britannico e dei rapporti culturali e commerciali che il Regno Unito conserva con i membri di quest’organizzazione. Insomma, parliamo di isole e nazioni integrate in un unico “sistema” … e tutto coordinato dalla City di Londra. Sistema unico che non ha paragoni nel resto del mondo.

A ciò si aggiungano le dipendenze della Corona, come Jersey e Guernsey, isole del Canale della Manica, in cui hanno base decine di migliaia di Trust con i quali si gestiscono fondi di provenienza più o meno lecita.
Sono anni che Londra ha scelto consapevolmente di abbandonare lo sviluppo industriale, prediligendo uno sviluppo nell’attività finanziaria. Oggi in Inghilterra l’industria contribuisce per meno del 20% al Pil britannico. Restano dunque poche alternative. Inoltre la posta in gioco nel settore è molto alta. Basti pensare che, secondo un recente studio di tre ricercatori californiani, solo con riguardo all’Italia, ogni anno le residenze fiscali sostanzialmente fittizie delle imprese in Olanda, Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Malta e Cipro sottraggono all’erario circa sei miliardi di euro. Un euro ogni cinque di entrate dall’imposta sugli utili delle società “evapora” grazie ai trattamenti di favore offerti da questi Paesi alle aziende che trasferiscono contabilmente i loro profitti in quelle giurisdizioni. Si pensi perciò a quello che potrebbe succedere se gli accordi commerciali con Londra in vista del completamento della Brexit, garantissero al Regno Unito la possibilità di disapplicare la legislazione europea antiriciclaggio. Non è un caso che cancelliere dello Scacchiere (ministro del Tesoro) sia Sajid Javid, un ex trader di origine asiatica a lungo basato a Singapore per Deutsche Bank. Johnson può decidere di imboccare proprio una di queste strade dopo la Brexit: fare di Londra una Singapore sul Tamigi, con poche tasse per le multinazionali estere, scarsa trasparenza e un’elevata dose di segreto bancario e molta elasticità sulle regole finanziarie.

Note:

Commonwealth: è un sostantivo inglese coniato da Oliver Cromwell durante la rivoluzione inglese. Deriva da common wealth o the common weal, termini con i quali ci si riferisce all’originario significato di wealth, cioè “benessere”. Commonwealth britannico è un’espressione usata a partire dagli anni ‘20 per designare il «gruppo di nazioni dotate di autogoverno» nell’ambito dell’impero britannico a indicare programmaticamente l’unità di un organismo che ha parti autonome concorrenti tutte al fine unico del «bene comune». Attualmente designa, di norma, il Commonwealth delle nazioni – Commonwealth of Nations, detto in precedenza Commonwealth britannico — un’organizzazione internazionale fra Stati, costituita da 53 membri in totale, che hanno fatto parte in passato dell’Impero britannico (fanno eccezione per due soli membri, il Mozambico e il Ruanda). L’elenco dei paesi che ne fanno parte comprende sia repubbliche sia monarchie e il capo designato del Commonwealth è la regina Elisabetta II.

Le Dipendenze della Corona britannica (in inglese: British Crown Dependencies) sono le isole del Canale e l’isola di Man. L’isola di Man è situata nel mare d’Irlanda tra la Gran Bretagna e l’Irlanda, mentre le isole del Canale, divise tra i baliati di Jersey e Guernsey, sono situate nel canale della Manica a ovest del Cotentin. Si tratta di possedimenti della Corona britannica che godono di un’amministrazione autonoma e, come tali, non fanno parte del Regno Unito. Dal 2005 ogni Dipendenza della Corona ha un primo ministro a capo del Governo. In ogni caso, poiché si tratta di possedimenti della Corona, non sono nazioni sovrane e il potere legislativo è, in ultima analisi, detenuto dal Sovrano del Regno Unito. Per quanto concerne l’applicazione delle leggi sulla nazionalità, i residenti nelle dipendenze sono cittadini britannici. Non sono parte dell’Unione europea, avendo deciso di non aderirvi quando il Regno Unito vi entrò, e la relazione con esse è governata dall’Articolo 299 (6) (c) del Trattato costitutivo dell’Unione: «questo trattato si applicherà alle isole del Canale e all’isola di Man solo nei limiti necessari per assicurare l’implementazione dei patti per queste isole avviati nel trattato riguardante l’ingresso di nuovi stati membri nella Comunità economica europea e nella Comunità europea dell’energia atomica firmato il 22 gennaio 1972» e dal protocollo 3 dell’UK’s Act of Accession to the Community. Si tratta dunque di una relazione molto peculiare che sfugge all’applicazione della stringente normativa europea in tema di antiriciclaggio, con tutte le conseguenze negative che ne possono derivare per gli Stati membri dell’UE.

 

Scarica e conserva “IL CAVEAU N° 66”.